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Le cinque Città Saturnie

la storia delle mura ciclopiche che avvolgono nel mistero Alatri, Anagni, Arpino, Atina e Ferentino.

Le loro origini sono tuttora avvolte nel mistero, la loro mole imponente pone continui interrogativi sui loro creatori.
Parliamo delle mura ciclopiche di Alatri, Anagni, Arpino, Atina e Ferentino: le cinque Città Saturnie le cui mura di cinta colossali sono costituite da enormi megaliti incastrati alla perfezione senza l’ausilio di alcuna malta o cemento di sorta.

La fondazione di questi centri si perde nella notte dei tempi, ancora oggi infatti non riusciamo a stimarla, ma alla conoscenza  scientifica ha sopperito in gran parte la leggenda. Si dice che a erigerle sia stato lo stesso dio Saturno durante l’età dell’oro (aurea aetas), che veniva rievocata e di cui si invocava il ritorno durante le celebrazioni -i saturnalia- in onore della divinità.

La loro unicità secondo molti studiosi sta nel loro posizionamento, replicherebbero infatti in maniera accurata la posizione della cinta centrale della costellazione dei Gemelli.
L’archeologia classica ipotizza che i Pelasgi -popolazioni pre elleniche che colonizzarono la zona- avessero eretto lì le loro roccaforti. A sostegno di tale tesi va la forte similitudine tra l’impianto architettonico utilizzato qui e quello delle città micenee  dell’antica Grecia.

Alatri

La particolarissima città del Basso Lazio costituisce il vero centro del mistero che grava su queste costruzioni antiche. Con un perimetro di oltre due chilometri e uno spessore massimo di circa dieci metri la cinta muraria dell’acropoli svetta sulla vallata circostante e  dal punto più alto, detto pizzo pizzale (21 metri), si potevano avvistare le popolazioni nemiche in lontananza e osservare indisturbati la volta celeste. L’astronomia torna a essere chiamata in causa perché i vertici dell’acropoli replicano con buona approssimazione la già citata costellazione dei Gemelli tanto cara al popolo dei costruttori.

10 cose da vedere nel Basso Lazio - Mura Ciclopiche di Alatri

Foto di Daniele Stramaccioni

Anagni

Già capitale degli Ernici, Anagni, presenta una geometria molto simile ai modelli costruttivi della Grecia orientale e ha conservato intatti i cosiddetti arcazzi, archi di megaliti che dovevano sorreggere strutture davvero maestose che ad oggi possiamo solo immaginare.

Foto di Dona Amati

Arpino

La Civitavecchia di Arpino era al centro delle brame di qualsiasi conquistatore dell’antichità che volesse controllare l’arpinate: mura possenti e grandi torrioni in megaliti fornivano un presidio eccellente per la difesa delle popolazioni e delle ricchezze accumulate dai guerrieri durante le frequenti scorrerie. Tito Livio -celebre storico romano vissuto a cavallo del primo secolo dopo Cristo- ci dà notizie di rocche ciclopiche volsche esistenti nella zona già quattro secoli prima della nascita di Gesù.

Atina

Le mura ciclopiche di Atina, benché ricoperte in parte dalla flora selvaggia, sono un rarissimo esempio di triplice fortificazione con megaliti, molti studiosi stanno analizzando il particolare fenomeno per tentare di darvi una spiegazione logica, ma per il momento non esiste una teoria dominante circa questo aspetto. Ad Atina inoltre ritroviamo il grande legame di questi territori con il dio Saturno: a lui è dedicata una delle piazze principali del paese e sul suo antico tempio sorge oggi la cattedrale di Atina.

mura atinaFerentino

Il centro storico di Ferentino conserva le tracce dello scorrere del tempo, in alcuni punti delle mura ciclopiche si possono infatti ammirare le sovrapposizioni dei diversi stili di costruzione per la fortificazione della città, con strati romani e medievali. Lungo il perimetro delle immense mura troviamo sei porte in stato di conservazione davvero notevole, due di esse in particolare meritano una menzione speciale: la porta pentagonale che come quelle di Argo e Micene difetta di arco e forma una cuspide con vertice nel centro, e la porta sanguinaria, probabilmente così chiamata per il transito sotto di essa dei condannati a morte.

Comments:

  • Mario Maloccu
    3 Giugno 2021 at 17:29

    Da più di trenta autori antichi, greci e latini, vengono chiamati Pelasgi/Pelasgói “naviganti e pirati” che risultavano segnalati in quasi tutta la Penisola italiana e poi in quella greca e infine in molte località del Mar Egeo.

    Nel mondo antico correva una etimologia di questo vocabolo: Pelasgós = pelargós «cicogna» (uccello migratore); ma in realtà questa non era altro che una paretimologia o “etimologia popolare” (cioè errata), conseguente al fatto che i Pelasgi si spostavano spesso dal Mar Tirreno a quelli Ionio, Adriatico ed Egeo. E come dimostra soprattutto il fatto che i Pelasgi o Pelasgói sono citati dagli autori antichi, greci e latini, quasi sempre e soltanto in questo esatto modo.

    A mio avviso, invece, Pelasgus/Pelasgós significava anch’esso «costruttore e abitante delle torri, torrigiano, turritano», derivando dalla glossa latino-etrusca fala «torre di legno, torre d’assedio» (DELL). E c’è da precisare che dell’appellativo fala i Glossari latini riportano pure la variante phala e inoltre che le alternanze delle vocali A/E e delle consonanti F/PH/P sono ampiamente accertate nella lingua etrusca (DICLE 13; LIOE, LLE Norme).

    A mio giudizio dunque ha un elevato grado di probabilità e di verosimiglianza il fatto che anche l’etnico lat. Pelasgus e greco Pelasgós corrispondesse esattamente all’altro etnico Tyrsenós, Tyrrhenós = «costruttore e abitante delle torri», ma avendo come base la glossa latino-etrusca fala, phala «torre» invece dell’altra greco-etrusca tyrsis, tyrrhis «torre». Anzi, prendendo in esame la forma dell’etnico Tuscus «Etrusco, Toscano» (che deriva da Tur-sc-us), si vede chiaramente che Tuscus e Pelasgus sono due perfetti sinonimi, dato che hanno la stessa identica struttura: Turr-scus, Pela-sgus.

    E come i veri e propri ed originari Tyrsenói, Tyrrhenói erano i Sardi Nuragici, costruttori delle «torri nuragiche», così pure i Pelasgi in origine indicavano anch’essi i «Sardi Nuragici».

    Nella lingua etrusca il nostro appellativo potrebbe aver avuto la forma di *PELASXA e di fatto forse potrebbe corrispondere all’antroponimo femm. FELSCIA, da interpretarsi come FEL(A)SC-IA (CIE, Per. 4513), con accertate e ben conosciute alternanze fonetiche etrusco/latine P/F, X/G, A/E (DICLE 13; LIOE, LLE Norme).

    Preciso e sottolineo che a favore di questa mia etimologia di Pelasgus/Pelasgós interviene una notevole prova di carattere metodologico: questa etimologia in effetti ha il grande pregio di costituire la principale “chiave di lettura e di soluzione” della intricatissima questione degli antichi Pelasgi, la quale diversamente continuerebbe a rimanere senza alcuna soluzione.

    Proprio su questo argomento è da citare una ampia e importante opera dello studioso francese Domenique Briquel, Les Pélasges en Italie – Recerches sur l’histoire de la légende\1\. Si tratta di un’opera che da un lato è degna di grande lode, dall’altro è da respingersi con decisione per le analisi e le conclusioni che l’Autore ha ritenuto di doverne trarre. È degna di lode per il fatto che l’Autore vi presenta e discute minutamente tutte le numerosissime citazioni antiche dei Pelasgi, invece è da respingersi per questi che a me sembrano i suoi difetti fondamentali: I) Il Briquel, dalla prima all’ultima pagina, anzi dallo stesso titolo della sua opera definisce quella dei Pelasgi una “légende”. Ed io obietto: come è possibile che quella dei Pelasgi citati da più di trenta autori antichi sia solamente una «leggenda»? II) Il Briquel dedica numerosissime e minutissime analisi e interpretazioni ai testi studiati, finendo però col restarvi come impaniato o irretito nelle stesse e col non prospettare nessuna soluzione del problema. Ne deriva pertanto l’impressione che egli abbia agito come la famosa volpe rispetto all’uva del pergolato: ha definito il problema dei Pelasgi una “leggenda”, per il motivo che non è riuscito a prospettarne la benché minima soluzione.

    In effetti il Briquel ha ignorato del tutto quella che poteva essere ed era la vera ed esatta “chiave di lettura” di tutta la questione: che il vocabolo Pelasgus/Pelasgós era un etnico, che indicava un popolo specifico, caratterizzato da una particolarità specifica: la “costruzione di torri”. E dato che la presenza dei Pelasgi nella Penisola italiana era segnalata soprattutto in località rivierasche del Mar Tirreno, Pisa, Regisvilla, Tarquinia, Falerii, Pyrgi, Caere, Alsium, Roma, Ercolano, Pompei, era facile dedurne che i “naviganti e pirati” che devastavano quelle località partivano dalla Sardegna e dalla Corsica meridionale, con la sua appendice della “civiltà torreana”, cioè ancora delle “torri nuragiche”.

    Abbiamo infatti una importante notizia di Strabone, nel passo già citato (V, 2, 7 [225]), che dice che i Tirreni della Sardegna effettuavano azioni di pirateria nelle coste dell’Etruria, soprattutto in quelle di Pisa. Questa notizia di Strabone di certo è molto più recente di quella relativa ai Pelasgi segnalati a Pisa, ma è probabile che in realtà non si riferisse ai tempi del geografo greco (vissuto nel 63 a. C.-19 d. C.), ma si riferisse al passato, di cui pertanto costituirebbe il lontano ricordo.

    A questo proposito si deve considerare che per tutta l’antichità, fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando fu inventata, costruita e adoperata in larga misura la ferrovia, “viaggiare” significava e consisteva nel “navigare”, come dimostra anche il fatto che il verbo italiano e romanzo arrivare in origine significava “attraccare”, derivando dalla espressione marinara ad ripam venire «arrivare alla riva». Pertanto, anche in virtù della presenza delle isole dell’Arcipelago Toscano, era immensamente più comodo, più sicuro e più veloce andare dalla Sardegna in Toscana, nel Lazio e in Campania che non andare per via terrestre dalla costa tirrenica a quella adriatica della Penisola italiana.

    D’altra parte è un fatto che la presenza dei Pelasgi nelle coste occidentali dell’Italia centrale non è indicata dagli antichi autori soltanto a titolo di “incursioni piratesche”, ma è indicata pure a titolo di “stanziamenti” più o meno stabili. Lo scrittore greco Philisto (in Dionigi di Alicarnasso I, 22, 4 = FGH 556 F 46) dà la notizia che i Pelasgi, assieme con gli Umbri, costrinsero i Siculi ad abbandonare il Lazio ed emigrare in Sicilia.

    Addirittura i Pelasgi sono citati da Plutarco (Rom., 1, 2) come quelli che diedero il nome alla città di Roma; notizia che viene confermata in maniera clamorosa da quella di Dionigi di Alicarnasso (I, 29, 2), secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca).

    Pelasgi e Tirreni

    A questo punto è importante precisare che la presenza dei Pelasgi risulta segnalata dagli autori antichi non solamente nelle aree del Tirreno e dell’Adriatico, ma risulta segnalata anche in quasi tutte le località del Mare Egeo. Anche in quest’area i Pelasgi risultano segnalati assieme coi Tirreni/Tirseni ed inoltre quasi sempre identificati fra loro. Qualche rara volta Pelasgi e Tirreni/Tirseni sono citati come distinti o differenti e addirittura come avversari.

    Ma questo fatto non deve stupire più di tanto, quando si consideri che in effetti il nome di Tirreni/Tirseni e quello di Pelasgi erano riferiti non ad un popolo strettamente unitario, bensì a suoi differenti rami un po’ sparsi in tutte le coste settentrionali del Mediterraneo, cioè nei Mari Tirreno, Adriatico, Ionio ed Egeo. ***
    Estratto dall’opera di Massimo Pittau, Il dominio sui mari dei Popoli Tirreni – Sardi Nuragici Pelasgi Etruschi

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